La cantina che c’è, ma non si vede.

Si scrive Soave, si legge Pieropan. Si scrive cantina, si legge gioiello incastonato nelle colline veronesi. Un gioiello che ho avuto il piacere di visitare qualche mese fa e che, come tutto ciò che brilla, mi ha pervaso di stupore.

La nuova cantina ipogea Pieopan, inaugurata la scorsa estate, è un’opera unica per innovazione e integrazione con il territorio, perfettamente inserita nell’ambiente grazie al fatto di essere completamente interrata nella collina che, sfruttando il pendio naturale, riduce al minimo l’impatto visivo, e di essere circondata da vigneti su tutti i lati, anche sulla copertura.

La struttura è realizzata in pietra locale e di provenienza locale sono pure tutti gli altri materiali utilizzati. L’ingresso nella hall mi ha tolto fiato: mi sono subito persa ad osservare l’esposizione su un enorme tavolo di tutte le tipologie di suolo presenti nelle tenute, per poi passare alla scoperta della personalissima ed originale catena di imbottigliamento che lavora una media di 750 mila bottiglie all’anno.

Ad accompagnarmi nella visita è Dario, che insieme al fratello Andrea continua la tradizione iniziata dal bisnonno e perfezionata dal papà Leonildo, scomparso nel 2018.

“Ciò che ci rammarica maggiormente – mi spiega Dario con tono e modi pacati che per tuta la visita mi infondono una naturale tranquillità – è il fatto che nostro padre non abbia potuto vedere la conclusione del progetto che aveva fortemente voluto e che ha seguito fino alla sua prematura scomparsa”.

Leonildo Pieropan resta una leggenda per questo territorio e per il mondo vinicolo: basti pensare che è stato il primo, ragionando con l’amico Luigi Veronelli, a decidere di indicare in etichetta il nome di un Cru, il Calvarino, e a vinificarlo in modo separato; ed è stato uno dei fondatori del movimento dei Vignaioli Indipendenti in Italia.

Ma a colpirmi maggiormente, durante la visita dei suggestivi ambienti di lavoro, allestiti in armonia con le fasi della produzione del vino, è l’assoluta pulizia, quasi irreale, che regna sovrana.

“Siamo figli di un padre pignolo che lavorava i vigneti come se fossero dei giardini – continua Dario – e di una madre altrettanto precisa e attenta a tutti i dettagli”.

Ed eccola la mamma, Teresita, straordinaria donna dalla personalità solare e decisa, che ancora oggi si occupa di una parte dell’azienda con una grinta da trentenne. Mi parla di Leonildo, unico uomo della sua vita sposato dopo sei mesi dal loro primo incontro, di cui porta avanti lo spirito con il quale lui ha sempre gestito la cantina, nel ricordo di un amore che li ha legati per una vita e che ama definire “fuori dal comune”.

Riconosciuti dal mondo enologico come i pionieri del Soave, i Pieropan si distinguono per la produzione del Calvarino, la cui prima etichetta risale al 1971, frutto dell’antico fondo di famiglia. Il nome, che significa piccolo calvario, ricorda le difficoltà della lavorazione del terreno e del percorso tortuoso per raggiungere la proprietà. Formulato con il 70 per cento di uva garganega e il 30% di trebbiano, ne vengono prodotte 70 mila bottiglie all’anno.

E poi c’è La Rocca, prodotto con garganega in purezza, un vero vino di razza simbolo indiscusso di qualità e tradizione.

La visita prosegue con la degustazione di vecchie annate che mi ricordano che il Soave Pieropan è stato uno dei primi vini scelti dall’enoteca Pomodoro: per me è sta una riscoperta, dopo tanti anni, che mi ha reso molto felice. E che mi ha confermato che dietro ad un vino buono ci sono sempre belle storie e belle persone.

 

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